Ci sono libri che fanno riflettere, uno di questi è proprio Il cancello, scritto da François Bizot e purtroppo ormai circolante solo mercato dei libri usati. Innanzitutto va detto chi è François Bizot, ossia l’unico straniero rilasciato dai khmer rossi, prima del 1975, una volta arrestato. Come specificato all’interno del volume, tutti gli altri stranieri tornati in libertà prima della nascita della Kampuchea Democratica furono arrestati dai nordvietnamiti. Insomma questo libro è il libro di un sopravvissuto, ma non ha nulla del libro di denuncia o del memoriale scritto per rievocare.
Bizot ha pensato, anzi si è portato dentro, questo libro per trent’anni. Anni in cui le cicatrici della prigionia sono sempre state aperte, come emerge dalla prefazione di John Le Carré. Di valore anche la nota introduttiva di un grande esperto del sudest asiatico come Marco Del Corona, una nota introduttiva che permette di inquadrare storicamente i fatti a cui si riferisce il libro. Inoltre come ben sottolinea Del Corona questo libro racconta due storie, quella di Bizot e quella della Cambogia intera. Storie che si fondono, visto come Bizot arrivi quasi a fondersi con il popolo cambogiano.
Nessuna certezza
Il popolo khmer, unico appunto da fare a Bizot è usare khmer come sinonimo di cambogiano, è infatti per l’autore il grande protagonista della storia cambogiana, sin dal tempo dell’impero di Angkor. Un protagonista tuttavia silenzioso e spesso passivo, ben lontano dal contadino mitizzato nel cui nome i khmer rossi hanno svuotato le città del paese. Bizot, studioso di arte e religione buddhista vive in un villaggio non lontano da Angkor, sa di essere uno straniero, conscio della presenza di una distanza che non potrà mai essere colmata nonostante la padronanza della lingua.
Questo non è un libro che piace a chi possiede certezze, come il Jean Lacouture del libro. Il fatto che Bizot non faccia una netta condanna dei khmer rossi, potrebbe far inorridire molti. I suoi lunghi e profondi dialoghi con il (futuro?) torturatore Dutch, sono di quanto meno ideologico si possa leggere. La condanna di Bizot è molto più profonda, addirittura metafisica, la condanna dell’uomo stesso, con dei tratti che ricordano lo stato di natura perduto di certa filosofia francese. Tra Duch e Bizot si sviluppa un rapporto tra due persone che si capiscono, ma divise dal cancello dell’ideologia.
Chiusi nell’ambasciata
Il cancello del titolo è in realtà quello dell’ambasciata francese di Phnom Penh, di cui Bizot vive e aiuta ad organizzare lo sgombero da parte dei khmer rossi ormai giunti al potere. La seconda parte del libro all’immobilità del Bizot incatenato sostituisce l’immobilità forzata dei rinchiusi all’interno dell’ambasciata. Bizot è invece l’unico libero di girare per una città spettrale, grazie al rapporto che si instaura con Nhem, khmer rosso responsabile del settore nord della capitale. Gli scenari, in cui si aggirano figure tragiche come Sirik Matak e Mme Long Boret, sono assolultamente apocalittici.
Sia ben chiaro che Bizot non simpatizza con i nuovi dominatori, le sue critiche verso gli Stati Uniti derivano dall’amore per il popolo cambogiano e non dall’anticomunismo. Il giudizio verso il nuovo regime comunista guidato da Pol Pot, che nel libro viene forse citato solo una volta, è spietato. I khmer rossi usano i contadini per i loro fini facendone un modello irreale. Per Bizot il male risiede proprio nel dominio dell’uomo sull’uomo per fini più alti, il tutto a spese del popolo più misero. Il rischio di esaltare il buon selvaggio è un rischio che Bizot sa di correre, lui che è un francese colto.
Finale con processo
Un’opera piena di contraddizioni, con ben poco buonismo al suo interno. Probabilmente, queste contraddizioni sono il motivo per cui questo libro ha visto la luce ben trent’anni dopo gli eventi. Siamo ben lontani dall’ansia di testimonianza di tanti sopravvissuti moderni.
A spingere Bizot a scrivere questo libro, anche un processo. Quello che in Cambogia ha portato alla sbarra i capi del regime dei khmer rossi, Duch compreso. Un cancello, quindi, che Bizot ha l’esigenza di chiudere. A noi invece il compito di chiudere queste pagine, pagine che forse ci dicono molto anche dei tristi tempi che stiamo vivendo.